Mozione Tav dei senatori del Gruppo Misto De Petris, Laforgia, Buccarella, De Bonis, Martelli, Fattori, Airola, preclusa in aula perchè già approvate le mozioni a favore.
Atto n. 1-00159
Pubblicato il 1 agosto 2019, nella seduta n. 141
DE PETRIS , LAFORGIA , BUCCARELLA , DE BONIS , MARTELLI , NUGNES , FATTORI , AIROLA
Il Senato,
premesso che:
il 24 luglio 2019, il Presidente del Consiglio dei ministri, Giuseppe Conte, ha annunciato, intervenendo in Aula a Montecitorio, la volontà del Governo italiano di proseguire con l’iter delle procedure per la realizzazione della TAV Torino-Lione;
il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, due giorni dopo, ha inviato una lettera all’Inea (l’Agenzia esecutiva per l’innovazione e le reti) per confermare l’impegno italiano al completamento della TAV Torino-Lione;
la tesi secondo la quale, grazie al presunto aumento del contributo della UE, “fermarla costa più che completarla” non è fondata per i diversi motivi, come di seguito esposti;
il contributo maggiorato europeo al momento è un buon proposito, ma nulla di più. Secondo Conte, la UE alzerà il finanziamento del tunnel al 55 per cento. In realtà, lo ha affermato Iveta Radicova, coordinatrice del corridoio mediterraneo, la decisione spetterà alla nuova Commissione e l’iter prevede almeno 2 anni. Nessun impegno giuridico è stato dunque preso. E non ci sarebbe da stupirsi troppo se da Bruxelles, incassato il sì italiano, invece di un assegno più cospicuo giungesse un diniego. Ad ogni modo, l’eventuale maggiore contributo di Bruxelles non cambia di una virgola la disastrosa valutazione economica dell’opera: sposterebbe eventualmente una parte maggiore dei costi dagli italiani agli europei. Stesso spreco di risorse e maggiore iniquità: a pagare di più sarebbero coloro che, ancor meno di italiani e francesi, beneficeranno dell’opera;
i conti per gli italiani resterebbero in rosso anche qualora l’Unione europea contribuisse per il 55 per cento della tratta internazionale e si facesse carico di metà dei costi di quella nazionale. La perdita di ricchezza per l’Italia conseguente alla realizzazione dell’opera è stata stimata pari a 2,8 miliardi di euro. Nella più favorevole delle ipotesi, essa si ridurrebbe a circa 1,6 miliardi. Questo senza mettere nel conto possibili o, meglio, probabili sforamenti dei costi di costruzione che per opere di questo tipo in passato sono stati dell’ordine del 50 per cento del preventivo (il 100 per cento per il tunnel sotto la Manica) e che comporterebbero qualche miliardo di euro di perdite aggiuntive per i contribuenti;
i risparmi invece, come sostenuto dal professor Marco Ponti, presidente della “Commissione costi/benefici grandi opere”, sarebbero pari a 3,3 miliardi di euro, se si rinunciasse all’opera;
il tunnel di base transfrontaliero (57 chilometri) sotto il Fréjus ha un costo pari a 9,6 miliardi di euro. Il contributo europeo è pari al 40 per cento. Al netto di questo, l’Italia paga il 58 per cento, la Francia il 42 per cento. Fu il Governo Berlusconi nel 2004 a inventarsi questa geniale trovata per convincere i riottosi francesi. La decisione di far pagare all’Italia due terzi di un tunnel solo per un quinto in territorio italiano venne motivata col fatto che la Francia pagava cara la sua tratta nazionale dal tunnel a Lione (10 miliardi). Peccato che nel 2017 Parigi ha deciso che quella tratta non ha stime di traffico sufficienti, quindi se ne riparla nel 2038, otto anni dopo la teorica conclusione dei lavori per la TAV, prevista nel 2030;
se l’incremento dei fondi europei fosse confermato, Bruxelles ci metterebbe 5,3 miliardi di euro, una cifra gigantesca. Nell’ultima tornata (2014-2020) del programma europeo per la mobilità (Connecting Europe facility, CEF) erano stati stanziati 6 miliardi di euro per tutte le tratte transfrontaliere dei corridoi ferroviari UE. Nel nuovo CEF ci sono 17 miliardi per i “progetti strategici”, in cui rientra la TAV. Se anche la cifra fosse destinata alle sole linee transfrontaliere significherebbe che alla Torino-Lione andrebbe un euro su 3 di tutti fondi stanziati da Bruxelles per tali “progetti strategici”;
il presidente Conte ha poi annunciato un contributo europeo del 50 per cento per la tratta nazionale italiana (1,7 miliardi di euro il costo totale). Questo impegno arriva sempre dalla commissaria Raticova, ma non è previsto dal contratto che regola il finanziamento dell’opera. La realtà è che la UE non ha mai messo a disposizione più di 700-800 milioni di euro per settennio. E Francia e Italia ne hanno sistematicamente perso la metà ogni volta;
non è vero che costa più fermare la TAV che farla. I grandi appalti non sono partiti e le penali non sono previste, né verso la UE né verso la Francia. Secondo una relazione del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti i costi massimi dell’interruzione dell’opera potrebbero arrivare a 1,7 miliardi di euro (“difficilmente raggiungibili”). Anche con il contributo UE maggiorato, sarebbero meno dei 3,3 miliardi che l’opera costerebbe all’Italia;
l’Italia, lo ha ammesso anche Conte, aveva buoni argomenti per sospendere il progetto. Il motivo principale è che la Francia non rispetta gli impegni: oltre a non fare la tratta nazionale (il che rende ancora più inutile la TAV), non ha mai stanziato a bilancio i fondi necessari per realizzare l’opera. L’Italia lo ha già fatto con il Governo Monti, mentre Parigi ogni anno decide quanto mettere. Ma l’accordo di Roma del 2012 prevede che i lavori possano partire solo quando c’è la disponibilità complessiva dello stanziamento. Per Parigi non c’è;
per l’iniqua ripartizione dei costi con la Francia, l’Italia poteva rivolgersi al tribunale arbitrale previsto dal Grant agreement del 2015. Per il mancato stanziamento dei fondi da parte di Parigi, poteva sollevare la questione alla commissione intergovernativa italo-francese che sovrintende alle procedure tecnico-finanziarie che disciplinano la TAV, sostituendo prima i membri italiani (gli attuali sono tutti a favore dell’opera). Poteva perfino revocare i membri del consiglio di amministrazione del promotore italo-francese dell’opera (Telt) e nominarne di nuovi per bloccare i lavori. Ma il Governo ha deciso diversamente;
i francesi hanno rinviato la loro tratta nazionale a dopo il 2038, sostenendo che non vi sono rischi di saturazione. Lo dice il report del 27 giugno 2013 della commissione governativa francese “Mobilité 21”, accolto dal Governo di allora nel suo scenario B, secondo cui l’opera di accesso francese al tunnel transfrontaliero è giudicata non prioritaria (nella tabella di pag. 48) e rinviata nel lungo termine. La spiegazione è dettagliata a pag. 57: “La commissione conferma l’interesse a lungo termine della realizzazione dell’accesso previsto, in connessione con la realizzazione del progetto di collegamento bi-nazionale. Tuttavia, date le incertezze relative al programma del tunnel di base, la commissione non è stata in grado di garantire che i rischi di saturazione e conflitti d’uso che giustificano la realizzazione del progetto si verifichino prima degli anni dal 2035 al 2040. Di conseguenza, classifica il progetto di accesso bi-nazionale come seconda priorità, indipendentemente dallo scenario finanziario considerato. Raccomanda un follow-up specifico delle condizioni di sviluppo del progetto complessivo, almeno secondo la periodicità di 5 anni che consiglia inoltre al fine di verificare regolarmente il probabile orizzonte di realizzazione degli accessi francesi”;
questa impostazione è stata confermata dall’approvazione da parte dell’Assemblea nazionale, il 18 giugno 2019, della “loi de mobilité” il cui allegato sulle politiche di investimento contiene l’impegno a definire (non ad avviare i lavori) la realizzazione della sua tratta nazionale entro il 2023, dando peraltro la priorità agli investimenti francesi fino al 2037 che contribuiscono principalmente al miglioramento del pendolarismo sulla base dello scenario n. 2 predisposto dal Conseil d’orientation des infrastructures (COI), scenario il quale programma tutti gli investimenti francesi sino al 2037, senza citare in alcun modo la realizzazione né il finanziamento della tratta nazionale francese della Torino-Lione;
se i rischi di saturazione e conflitto d’uso non sono destinati a manifestarsi nel breve-medio termine nella tratta francese, a maggior ragione sono destinati a non manifestarsi nella tratta bi-nazionale nella quale transita solo il traffico internazionale e non quello regionale francese, ben più intenso;
c’è da chiedersi, dunque, poiché la Francia ha posposto almeno sino al 2038 la decisione sul realizzare o meno la tratta Lione-tunnel transfrontaliero, basandola sull’insufficiente traffico, che senso abbia spendere almeno 10 miliardi di euro per costruire un tunnel di 57 chilometri che sfocerà su 140 chilometri di linea francese vecchia e a basse prestazioni. E, inoltre, se il traffico sulla tratta francese, che comprende numerosi treni regionali, è considerato insufficiente dalla Francia, come sia possibile giustificare la necessità del tunnel transfrontaliero, utilizzato solo dai treni internazionali che sono pertanto molto meno numerosi;
senza i 140 chilometri di tratta francese, del costo di almeno 10 miliardi di euro, il tunnel non ha comunque alcun senso in quanto sfocerebbe sulla vecchia linea francese a bassa capacità e basse prestazioni;
pertanto il tunnel transfrontaliero è destinato a rimanere solitario per diversi decenni e bisognerà che i due Stati finanzino la perdita d’esercizio di Telt una volta che il tunnel sarà in funzione dato che si dovrà scegliere tra avere un po’ di treni ma con pedaggi irrisori oppure nessun treno con pedaggi allineati ai costi gestionali;
sarebbe opportuno per lo meno posporre la realizzazione del tunnel e della tratta italiana sino al momento in cui la Francia delibererà la costruzione anche della sua tratta nazionale, evitando in tal modo di realizzare un grande mezza opera di nessuna utilità effettiva, dato che confluirebbe sulla linea francese storica a bassa velocità e capacità;
lo Stato francese in conseguenza del fatto che la società Telt, di diritto francese, paga le imposte in Francia e per effetto dell’Iva introitata sui lavori sul suo territorio nazionale, corrispondenti a circa i 4 quinti della lunghezza del tunnel transfrontaliero, avrà un notevole vantaggio finanziario che ridurrà vieppiù l’impegno di spesa complessivamente a suo carico;
rilevato che:
il progetto relativo alla linea ferroviaria di alta velocità Torino-Lione è stato concepito quasi 30 anni fa, in un momento storico, geopolitico ed economico-finanziario molto diverso da quello attuale. Tale progetto si basava su previsioni che oggi si possono analizzare con sufficiente obiettività, e che si sono rivelate del tutto irrealistiche e infondate;
posto che la diminuzione del traffico era (e rimane) un dato innegabile (sia comparato con i flussi transalpini della direttrice che attraversa Svizzera e Austria, sia in relazione alle infrastrutture ferroviarie che già esistono verso ovest), l’idea originaria di un collegamento ad alta velocità per i passeggeri connesso ad una più alta capacità di trasporto merci divenne poco credibile. Il progetto venne dunque riorientato ad un’ipotetica alta capacità “combinata”, che trasferisse il traffico merci da strada a rotaia: il tentativo, puramente strumentale, era quello di mascherarsi dietro criteri di sostenibilità ambientale;
è in quegli anni che nacque il soggetto attuatore, Telt, una società a partecipazione pubblica (50-50) italo-francese;
nel dibattito sulla linea TAV Torino-Lione ci si trova spesso di fronte a una pluralità di obiettivi confusi: l’integrazione italiana nelle reti internazionali di trasporto di merci, lo sviluppo economico del Nordovest, la riduzione dell’impatto ambientale del trasporto su strada, l’impatto macroeconomico dell’opera. È evidente come per ogni obiettivo ci siano molteplici possibili strade alternative da intraprendere: la scelta di concentrarsi solo sul progetto TAV non può, dunque, essere spacciata quale unica alternativa esistente;
nello specifico, rispetto al 1997 la riduzione del traffico merci in val di Susa, riconosciuta anche dal commissario del Governo nel 2017, è stata del 30 per cento. Attualmente il traffico ferroviario ammonta a 3 milioni di tonnellate, contro i circa 10 milioni dal 1980 e il 2000. La rete esistente può sopportare da 7 a 11 volte l’attuale traffico ferroviario merci: è evidente come i flussi non giustifichino in alcun modo la realizzazione di un progetto di tale portata;
i dati, infatti, se inseriti in un quadro di analisi del rapporto tra costi e benefici, conducono all’assunto che la TAV Torino-Lione non sia affatto conveniente sotto il profilo economico;
i costi dell’opera risultano assolutamente sproporzionati rispetto agli ipotetici benefici che ne deriverebbero: la teoria attuale, che vede un investimento italiano riducibile a 2-3 miliardi di euro, è del tutto fantasiosa. Nel 2012 (e si tratta di dati non ancora smentiti) la Corte dei conti francese quantificò il costo totale in 26 miliardi di euro, di cui soltanto 8,6 destinati alla tratta transnazionale e, dunque, coperti al 40 per cento dal finanziamento europeo. Per ciò che concerne la tratta internazionale (considerata prioritaria dal nostro Governo) il CIPE ha quantificato in 6,3 miliardi di euro il costo attribuibile alla competenza italiana;
l’intestardirsi sulla prosecuzione di tale progetto non è dunque connesso a ragioni economiche o giuridiche, ma è più che altro legato agli interessi di gruppi finanziari privati e all’impossibilità della classe politica di abbandonare un “mantra” sostenuto così a lungo: un’alternativa preferibile potrebbe essere, in tal senso, un grande programma di investimenti in piccole opere per la messa in sicurezza del territorio che risulterebbe più utile alla collettività, agli enti locali, alle comunità, e che comporterebbe benefici occupazionali di gran lunga superiori;
l’impatto ambientale dell’opera, contestato dalle comunità locali sin dall’origine del progetto, rimane tra l’altro devastante, soprattutto se si considera la presenza di amianto e uranio nella montagna da traforare (57 chilometri di tunnel) e i rischi idrogeologici connessi al necessario ventennale cantiere. Un elemento che smaschera l’attuale strumentalizzazione delle motivazioni di coloro che si oppongono alla realizzazione della linea: vengono paradossalmente attribuite loro posizioni volte a bloccare lo sviluppo sostenibile, necessario alla diminuzione dell’inquinamento connesso al traffico su strada;
sarebbe un obiettivo condivisibile se conducesse a un serio ripensamento del trasporto di merci, che trasferisca i tir sulla rete ferroviaria esistente. Non è tuttavia questo l’orientamento dei sostenitori della TAV, che si limitano a propugnare la costruzione di un’opera ciclopica con un impatto insostenibile sul piano ambientale. Le forze politiche che si sono ritrovate in piazza a manifestare a favore della linea Torino-Lione sono le stesse che da decenni si oppongono all’abolizione degli incentivi in favore del traffico stradale e autostradale: il “partito unico del cemento”,
impegna il Governo:
1) a non procedere alla realizzazione della linea ferroviaria ad alta velocità Torino-Lione, bloccando le relative procedure d’appalto anche sostituendo i membri italiani della commissione intergovernativa italo-francese che sovrintende alle procedure tecnico-finanziarie che disciplinano la TAV, e revocando i membri del consiglio di amministrazione del promotore italo-francese dell’opera (Telt) e nominandone di nuovi;
2) a trasferire le risorse risparmiate sul trasporto ferroviario regionale, sulle principali tratte pendolari connesse alle aree metropolitane e sul trasporto pubblico locale;
3) in subordine, a bloccare l’allineamento temporale dei lavori di realizzazione della tratta transfrontaliera all’effettivo avvio dei lavori di realizzazione da parte francese della loro tratta nazionale (essendo stata cancellata dalla programmazione francese degli investimenti per insufficiente traffico e rinviata a dopo il 2038).